Il ritorno di Pinocchio riaccende la memoria bozzettistica cara alla tradizione
Dopo celebri slanci innovativi la fiaba si tuffa nel cupo realismo di Garrone
Pinocchio (Federico Ielapi) e Geppetto (Roberto Benigni)
La fiaba di Carlo Collodi per eccellenza racconta nel profondo dei significati l’ardua sfida che sottintende l’evoluzione e la difficile metamorfosi della vita. Pinocchio è il burattino che desidera scrollarsi di dosso la forma più antica e claustrofobica nata dall’intrinseca natura materiale volendo accedere ad un altro status con rinnovati attributi. La caotica esistenza e gli avventurosi capitoli del bambino di legno che ambisce alla trasformazione del corpo sono l’evidenza centripeta dell’anelito di libertà sostenuto dall’autore con effervescente e simbolica capacità letteraria. Questa lettura che esce con potenza dal contorno criptico si affermò per esteso nella traslazione cinematografica quasi un secolo dopo sul’onda dei grandi cambiamenti sociali sfociati nel ’68. La versione in pellicola di Luigi Comencini con Pinocchio (Andrea Balestri) e Geppetto (Nino Manfredi) esprime tuttora una palingenesi molto fluttuante con temi sicuramente di rottura quanto prossimi ad una visione antiretorica delle interpretazioni del libro. Nonostante la favola avesse in sé elementi dal rilievo universale,per questo acclamata e tradotta in molte lingue,nell’ambito italiano restò confinata per troppo tempo in angusti limiti che definiscono un genere librario e fra le pastoie di una lettura adatta unicamente al carattere adolescenziale. Eppure ancor peggio risultò la sintesi culturale d’inizio novecento che ha calibrato in Pinocchio un pessimo servizio,perché nell’affermazione di massa del racconto si sdoganò un messaggio ad uso moraleggiante rimasto cristallizzato per tante generazioni,lasciandolo intaccato da un profluvio di accesa retorica. La sopracitata produzione Rai del 1972 resta perciò una fondamentale chiave di svolta che diverrà solido punto di riferimento e raffronto nel momento in cui lavori analoghi si presenteranno successivamente sugli schermi. Anche la musica in quel periodo si affascinò a questo tema avvolgente con Edoardo Bennato che pubblicò l’album,
Burattino senza Fili,(1977)
rivisitazione di cantautore in luce moderna e filosofica del mondo Collodiano. Quando il cinema fuori del genere animato si rivolgerà di nuovo al personaggio del burattino,tra i più amati del mondo fantastico,farà pensare che la ricerca possa sempre rappresentare un collegamento di linfa virtuosa per tradurre le sottigliezze dell’opera. L’affermazione di altri punti di vista da sostenere con il ricorso d’innovative filigrane e adattamenti virtuosi,per poter riuscire ad incidere il divenire di estrose riletture. Il
Pinocchio cinematografico del nuovo millennio realizzato da Matteo Garrone doveva perciò appoggiarsi su qualcosa di ancor meglio irrorante che offrisse al verismo favolista sostanza dinamica,intellettiva forgiata nella semantica di un fantasy contemporaneo. La resa finale rimanda invece a reminiscenze devote alla vecchia tradizione conservando trama e la memoria visuale dei bozzetti illustrativi cari alle prime edizioni tipografiche. Il film grazie a soluzioni di scenografia e all’uso della fotografia quali fondamentali mezzi fa primeggiare un realismo cupo,scuro,dove la fiaba disegna i personaggi animaleschi rappresentati dalle maschere antropomorfe come potremmo aspettarci senza peraltro alcuna sorpresa. Povertà e ambienti nefasti paiono espandere un pessimismo irreversibile per il povero burattino (Federico Ielapi) in fuga da onnipresenti burattinai che sovrintendono l’esistere,ma i segni allegorici hanno qualche difficoltà a svilupparsi con induttiva iniezione comunicativa. Garrone come nel
Racconto dei Racconti non trova l’adagio che faccia corrispondere realtà naturalista ed emersione favolosa dalle particolari soluzioni significanti. Del resto sembra meglio propenso e coerentemente disponibile alla confezione di una fiaba natalizia senza scossoni. Alla fine avrà probabilmente ragione proprio la necessità in pacco dono da grandi e piccini per la gioia del box office. Semmai al cinema resta l’azione meritevole di riproporre periodicamente ad ogni generazione lo spettacolo di una fiaba sulla quale riavvolgere dolce piacere al di fuori del tempo. Ricorderemo un solo mutamento da testimonial,Roberto Benigni passa dal suo
Pinocchio del 2002 a ruolo più austero nel presente quale Geppetto,il poliedrico falegname che creò il burattino/bambino. In epoca che non crede più al valore taumaturgico del favoloso pare adeguarsi l’ex guitto ribelle Benigni,consegnando al poco incantato millennio due impronte non sempre persuasive sull’ellisse più paradigmatica lanciata da un altro affabulatore toscano.