Opera senza Autore: Tom Schilling è il pittore Kurt
Il logico filo che oltrepassa,scuote la vulnerabile emotività facendo emergere inclinazioni giammai soffocate dal dolore è una caratteristica predominante dei film di Florian Henckel von Donnersmarck. Una peculiare via sondata e proposta in storie del tutto diverse sempre immerse con profondità semantica nel tessuto germanico. Questa riconoscibilità culturale,che non sarà affatto un limite di appartenenza ma un assunto indispensabile per conoscere e riconoscere nei dettagli la fisionomia di una parte dei cromosomi europei,scopre frastagliate varianti nell’architettura dei racconti,(
The Tourist). Torna spesso sui sentieri e sul buio di taluni percorsi per osservarli da aperto pensatore. Non guarda con gli occhi della storiografia e con la rilevanza dell’ideologia ma segue i capitoli della narrazione prediligendo e cercando l’estratto dell’idealità. Per tale motivo come,
Le Vite degli Altri,non poteva essere ricondotto ad un generico pamphlet di denuncia di un periodo oscuro,altrettanto,
Opera senza Autore,non andrà collocato in un’univoca rilettura critica del ciclo temporale tra Nazismo e l’era del Muro di Berlino. Ambedue i film semmai seguono il vivere,osservano senza più reticenze la lotta tra la presa di coscienza del male e la permeabile,intima volontà dell’indole umana a protrarsi verso valori e bagliori d’infinito.
Opera senza Autore,mantiene vivo il senso lacerante e tutto l’indotto caotico che deprime e imprigiona in sé stessi i personaggi,ma fin dall’inizio rende palese un’ipotesi: La faticosa genesi dell’arte. Dalla capacità di entrare in osmosi con le sue sorgenti si avrà,forse si potrà altresì godere della possibilità di un passaporto di libera ascesi,che non teme relativismi e imposizioni degli altri. Lo status di esseri liberi per Henckel von Donnersmarck si contestualizza nel compenetrare attraverso l’esperienza artistica quel bisogno catartico che guida il potere di cambiare le vite. Si quantifica indicando propensioni con disciplina e adesione alle tecniche espressive,ma il suo sviluppo atipico non é associabile alle regole conformi,alla necessità d’inquadramento che hanno i regimi dispotici. Quelle energie dirompenti sono l’opposto dei conformismi perché non temono,mai soggiaceranno ai dominanti in ragione dell’incontrollabile esegesi insita nella creatività. Il film comincia prima della guerra mentre la tragedia nazista sta compiendo passi inarrestabili. Il regista evidenzia quanto l’importanza e la ricerca del seme dell’arte detengano un’ipnotica senza eguali. Sono visti da una giovane,Elizabeth che insieme al piccolo cugino Kurt,rincorrono rituali inondati di adolescenziale e pervasiva connessione con il naturale. Sperano di trovarvi una specie di magia unica che svesta il segreto dell’essenza artistica. La ragazza possiede innata sensibilità profetica e ama la pittura informale infondendo al fanciullo il carisma di un mondo invisibile e trasognato. Per tale predisposte insorgenze viene ritenuta insana di mente e spedita al manicomio,devianza e follia dai nazisti sono ritenute pericolose per l’orticello di una tradizione da salvaguardare. Se Hitler detesta i quadri degenerati di Kandinskij possiamo ben comprendere come il delitto pianificato giustifichi e protegga la presunta purezza dell’espressività tenuta alla larga da concetti evolutivi. Nel dopoguerra l’accademia e una prospettiva da pittore ha un richiamo ancestrale per l’ormai ragazzo,Kurt. Seguendo le attitudini di Elizabeth,vittima innocente di quest’amore incommensurabile per il sogno d’artista inseguirà e s’immedesimerà alla scoperta dell’arte. Per un tortuoso giro dal sapore peraltro fatalista egli avrà la possibilità di rivelare il proprio acume pittorico e attraverso misteriosi segni dettati da composizioni di luce sovrapposte di immaginario imprevedibile avrà la chance di far riemergere la verità nascosta nel grigiore del tempo. La storia di trent’anni di Germania e Germanie,dal 1937 al 1966,viene raccontata per paragrafi individuali,risuona evidente il tocco stilistico dell’autore cominciando dalle vicende umane che originano il più ardito,completo compendio di talento esposto sullo schermo. D’inverso rappresenterà l’orrida manifestazione di tirannia sovrana che accumuna e divide gli uomini. Florian Henckel,conduce la materia e la plasma seguendo elaborazioni dove l’estetica delle passioni o il dileggio dei sentimenti assumono non solo un contorno di ambiente ma una decisa virata verso un narrare modulato atto a costruire l’identità tout court del linguaggio artistico. Volendo assegnare a questa pellicola la codifica dei generi possiamo chiamarla un giallo filosofico,ma è una convenzione di comodo all’interno di una forma cinematografica incuneata tra crimine,dubbio e intuizione che in parallelo diverrà simile al modello di plasticità inseguita. D’altronde il teorema fascinoso che rincorre nelle rarefazioni più estreme tende a dare al film sembianze dai toni spiccatamente informali mettendone in risalto il soffuso grido di evocazione. La vicenda incastrata con tanti avvenimenti,corsi e ricorsi del tempo,storie d’umanità,ambizioni agognate e riflesse,vira con decisione nel vortice di metaracconto quando si mette in moto la parafrasi del volto indefinibile di una fenomenologia. L’arte si erge a sofferto itinerario di mediazione tra materia e spirito,sebbene attraverso sembianze molto al di là volute dall’individualismo,ego,tecniche e pennelli,sembra svolgere una funzione autonoma rivelatrice,oggettiva che introduce alla verità autorevole,ovvero l’opera senza autore.