Tutto il talento di Pelè
La Perla Nera,
O Rey,colui che più di ogni presidente o leader politico ha tenuto in alto il nome del Brasile nell’ultimo secolo,doveva per forza essere immortalato in una pellicola,quelle da vero cinema. Pelé il grande giocatore di football,colui che al di là di mode e virtuosi del pallone di tanti periodi resta con molta probabilità il numero uno di tutti i tempi,in qualche modo doveva essere il protagonista di un film. Il genere biografico però sotto l’aspetto dei procedimenti di racconto è stato per troppo tempo strumentalizzato dall’uso improprio televisivo,banalizzato quanto reso ostaggio di soluzioni agiografiche che non servono a comprendere lo spirito di una personalità ma sono utility al solo contributo didascalico e storicizzante di vite illustri. Quando poi entriamo nell’agone sportivo anche il cinema per varie ragioni non è riuscito quasi mai a centrare il cuore di un fenomeno o a far vivere di originale narrazione il tema trattato. A parte qualche eccezione legata a grandi autori come Martin Scorsese,Oliver Stone,Hugh Hudson,i film sullo sport hanno vissuto focus deconcentrati se non piuttosto mosci. Nel caso del calcio il binomio con il cinema è stato da sempre collaterale se non inesistente nelle produzioni di Hollywood,anche perché fino a poco tempo fa non era entrato nel tessuto sociale americano. Oggi il gioco è praticato in scuole e diventa fruibile nei campetti,così l’epopea del calciatore brasiliano diventa interessante per il grande schermo pure in chiave globale. Evitando schemi ricorrenti,Jeff e Michael Zimbalist,scrivono e dirigono una storia che sposta il baricentro sulla fatica di rivelarsi,sul conflitto del dubbio mentre si consuma il rapporto tra l’individuo e gli altri. I due sono pluripremiati autori nel genere documentaristico dove hanno realizzato lavori di ambientazione sociale (
The Two Escobars,Favela Rising). Concentrano attenzione sull’esistenza del piccolo Dico,una di quelle uguali a tanti bambini destinati all’infinita normalità di un lavoro per sopravvivere. La vita di favela nei pressi di San Paolo e la natura ostile rivelano dura prospettiva ma nella parte più fantasiosa di un fanciullo c’è il gioco e con esso la magica abilità di mettersi a prova con una palla,sia di pezza che con la forma tosta di un frutto di mango per affinare abilità. Le prime partite si consumano timidamente tra l’occhio vigile e timoroso della madre e qualche discussione al seguito ma segnare in un match quattro gol senza scarpe non passa inosservato. Nasce in quei momenti la rivalità con un quasi coetaneo,di altolocata famiglia,tale José Altafini detto
Mazzola. Costui,viziato e presupponente,vive con fastidio la diversità del piccolo nero,la fiera competizione tra i due andrà avanti fino ai mondiali del 1958 quando il talentuoso diciassettenne gli soffierà il posto nella
seleçao. In quell’anno tutti conobbero Pelé,un appellativo a sinonimo di brand,ma solo qualche stagione prima approdando al Santos comprese che il suo talento poteva venir soffocato. Stava prendendo piede il tatticismo europeo dal momento che la sregolatezza individuale aveva portato alla sconfitta nei mondiali 1950,perciò il gioco di Edson do Nascimiento veniva ritenuto pernicioso,inutile se non primitivo e da rinnegare nella sostanza. L’ex calciatore,il carismatico Waldemar De Brito invece convince il ragazzo che questo non era un difetto semmai la coscienza del ritorno ad un’origine primordiale dove risiede il patrimonio di tutti i brasiliani. Nel essenza funambolica dell’atleta riconosce il valore dell’antica,ancestrale lotta praticata dagli schiavi fuggiaschi nella giungla,quando giunsero nel 1500 dall’Africa trasportati dai portoghesi. Era la ginga,base della capoeira,un’arte marziale di guerra per proteggersi,ma quando la schiavitù fu abolita questa disciplina fu bandita. In seguito il calcio divenne un modo perfetto,somma espressione per trasformare e riproporre un grido di battaglia senza essere arrestati. Pelé non potrà abbandonarla,nel profondo c’’è la fonte della sua gente,il piacere di condividere e nel guerriero dai piedi fatati l’ideale,la forza per affermare un’identità. Egli scoprirà il coraggio di accettare chi era veramente,come riflessa in uno specchio agguanterà nel totem della sfera di cuoio la via illuminata che porta all’equilibrio,alla redenzione di una cultura. Nel film scorre l’arte silenziosa della rivalsa,le splendida immagini del dribbling non potranno essere stile di solo sport ma una lezione di vita che sorregge la biografia di un campione per riscoprire le radici di un popolo.