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Nanni Moretti, Mia Madre una storia di tutti
Un racconto intimista e di psicologia quando il dramma sollecita attesa e paura
Scommessa di rinnovata ambizione, film alterno non all’altezza dei precedenti

Nanni Moretti in 'Mia Madre'
Nanni Moretti in 'Mia Madre'
Passano i film realizzati da Nanni Moretti ma esiste un minimo comune denominatore che continuiamo ad osservare e decifrare con costante abnegazione sperimentale. Variano i soggetti,la consistenza delle storie,la caratura dei personaggi,però continua a strutturare il racconto del film attraverso azzeccato uso di traslato qualificandosi come unico film maker italiano dal linguaggio sostenibile quanto degno del panorama internazionale. Dopo aver fatto un salto di qualità senza precedenti con Habemus Papam (2011) che lo aveva condotto in un terreno insidioso quanto favorevole ad una lettura multi direzionale oltre i collegamenti tipici della realtà,torna al film di natura intimista. Quasi a completare un’operazione di passaggio con il precedente lavoro trasferisce da questo la preminenza di un pessimismo esistenziale che si sta inspessendo anno dopo anno nell’indole di Moretti,trasformandosi in qualcosa più di una caratteristica antagonista legata al senso ribelle dei suoi anni giovanili. Non mancheranno attesa e paura che aprono spazi nella realtà desolata a complemento di un’opportuna,inattesa riflessione spesso ondivaga e insoddisfatta quando eventi traumatici condizionano scelte e comportamenti. Mia Madre,molto aderente per soggetto a La Stanza del Figlio (2001),se ne distacca perché il tema del dolore a differenza dell’altra pellicola diviene preparatorio all’ineluttabile dilazionando momento per momento interrogativi ed effetti psicologi sui personaggi. Ruota circolarmente alla grave malattia,alla vita ospedaliera che un’anziana madre (Giulia Lazzerini) sta vivendo con i figli intorno esprimendo nell’irreversibile fine una serie di inquieti accadimenti speculari incalzati dall’angoscia,sollecitando quel clima di vento drammatico propedeutico al racconto. La figlia Margherita (Margherita Buy) è una regista di cinema intellettualmente rigida ma fragile e in crisi,Giovanni (Nanni Moretti) è il fratello,ingegnere in aspettativa,ruolo apparentemente secondario che nella storia disegna figura minimalisticamente da saggia eminenza. Margherita sta girando un film con Barry,star americana (John Turturro) con il quale ha un rapporto conflittuale,ma la protagonista surrogando condizione ed ego che una volta sarebbero stati appannaggio dell’attore Nanni,dalla vicenda estrapola la tragedia della propria essenza cercando d’inquadrare quanto aspetti logici e consolidati aplomb siano la combinazione di una realtà puramente soggettiva,personale e probabilmente priva di giusta verità. Il teorema di Moretti s’insidia su questa posizione in cui lo sfondo dominante risulta un reale claustrofobico,inconfutabile,che perde il tono astratto e meta esistenziale visto in precedenza. La prospettiva guarda un percorso ancora più pericoloso da trarre sui sentieri stilistici di un realismo che fonda quotidianità e incubo per elaborare una sintesi di vera oggettività. Il trauma della madre per Margherita fa rilasciare attimi ansiogeni che non gli permettono una calibrata analisi di sé stessa. Nella sequenza del’incubo tangibilmente vero,quando svegliatasi trova il pavimento allagato,non si preoccupa di capire da dove fuoriusciva l’acqua ma cerca di tamponarla nervosamente a terra con carta di giornali; La struttura simbolica di causa effetto della psiche appare chiara. Il film visto in un rapporto complessivo invece risulta disomogeneo. La nuova scommessa,l’ambizione di Moretti senza dubbio evidente che voleva smuovere tonalità maggiormente impercettibili,poco disponibili all’espressività,sono rette da graduazioni rigorosamente realistiche non trovando giusto equilibrio di scelte comunicative. In certi capitoli,come abbiamo visto,la vicenda rilascia qualche meccanismo affidabile,incalza potenzialità ma nell’insieme resta un’architettura fredda che non fa viaggiare energia e potenza ad ogni angolo della pellicola per colpa di una sceneggiatura a singhiozzo lontana dal compimento semantico. I capitoli dedicati al film in produzione appartengono alla gamma dei meno riusciti dell’intero arco morettiano,troppo avvezzi al luogo comune e all’abboccamento significante. Il personaggio di John Turturro sembra la rigida parodia di un attore americano in vacanza a Roma,la verità non si aiuta con una burletta.
Franco Ferri
17 aprile 2015