Matt Damon in The Martian
Siamo convinti che dopo aver attraversato la porta del secondo decennio del duemila nella filmografia targata Ridley Scott stava prendendo forma qualcosa oltre i limiti della stanchezza mettendo in evidenza densi livelli d’involuzione creativa. Il problema ha riguardato progetti fondati sulla retorica e sulla scommessa commerciale,che al contatto con la realtà di un cinema nel quale aveva seminato grande personalità rivelavano preoccupante senso di impaludamento. Il pensiero va certamente a pellicole non esaltanti come
Robin Hood o
Exodus – Dei e Re,per non citare il pulp
The Counselor - Il Procuratore. Con obiettivo altrettanto più circostanziato poniamo lo sguardo su quel fantasy non riuscito,
Prometheus,in ragione di una sontuosità iconografica e tematica irrilevanti che hanno sedimentato troppe perplessità nei confronti dell’osannato direttore di
Blade Runner. Il cuore delle produzioni Scott evidentemente aveva un debito nei confronti del filone,ma non è solamente economia,la fantascienza con tutte le derivazioni fantasy resta un genere molto praticato se non affollato,colui che realizzò il film più replicante e memorizzato dell’era moderna doveva per forza riaprire quello scrigno d’immaginario radicato nel divenire. Tra i suoi hit ci sono state storie apparentemente semplici incentrate però su magistrale costruzione e senso di verità esistenziale che approdano con eccelso livello nel ruolo della memoria cinefila,(
Thelma & Louise). La pianificazione di un film come
Sopravvissuto – The Martian deve aver ricondotto quest’idea portante in cima con al centro l’uomo e certe contingenze pragmatiche depurate dalla possibilità di ingorghi sofici che rischiavano un freddo metabolismo comunicativo. La vicenda pericolosa,a volte struggente,dell’astronauta Watney (Matt Damon) creduto morto dopo una missione spaziale sul pianeta rosso trasmette il disagio più immediato e riconoscibile del protagonista perché porta dentro i segni della fatica umana circondati da una pressante solitudine senza appello. Molto differente dal recente
Gravity di Cuaron,dove i palpiti del personaggio principale erano indotti da magnetici richiami nostalgici della Terra,questa fantascienza evita ogni fascino del fantasy e quel Marte non contempla affatto suggestioni esotiche. L’orografia del suo territorio ci induce curiosamente ad assomigliarlo a quello del nostro pianeta con canyon in cui le enormi spazialità divengono la contraddizione più aperta per un uomo solo. Molto più siderale,complesso e rarefatto sarà il concetto di distanza,che non indica il conteggio progressivo di un percorso verso casa,ma l’opprimente diversità dell’individuo negato dalla possibilità diretta e fisica di interagire con il prossimo,costringendolo ad essere un alieno rispetto al resto dell’altra umanità. Il Marziano in questa versione poco incoraggiante e quasi futura di un universo ostile aggiorna la configurazione del naufrago di reminiscenza letteraria,colui che è indotto ai margini dal destino,dovrà usare doti tecnologiche oltre ogni misura per la salvezza. Nel preciso scenario la pellicola svolge uno dei più riusciti segmenti emotivi e significanti,un apologo di grande respiro che va ricondotto con sottigliezza al trend del nostro mondo. La vita su Marte di Mark Watney,isolata e costruita sull’uso intelligente di una tecnologia che in misura contraddittoria ha purtroppo negato gli intenti collettivi,è la cappa più decifrabile e assimilabile a quella degli uomini nella contemporaneità. Quando chat line,video,musica old fashion e strumenti hi tech sono le funzioni di un progresso virtuale ma incredibilmente statico,portatore di umana solitudine con urla nel silenzio che non sviluppano affatto dinamicità. Se Marte vuol dire Terra assumendo la figurazione di una crisi tuttora in corso,il film guarda in avanti scegliendo ulteriore livello di accesso che guarda al bisogno di aiuto,rilanciando il peso della solidarietà come contrappeso taumaturgico al pessimismo cosmico.