Anya Taylor Joy in The Menu
Il sapore e il retrogusto dei cibi appaiono come i suoni,le sonorità della musica oppure tendono a conturbare,sorprendere l’anima quasi fossero mescolanze di colori che la sfiorano con eccitanti sfumature. L’arte contemporanea sembra accettare ammaliata nel club ciò che esce dalla cucina di uno chef e contemplare nel proprio ventaglio il senso della creazione. La materia che trasformandosi,o nell’attimo prima di declinare la sua sostanza,ha dato,dà,sussistenza e conforto all’umanità diviene il soggetto portante per un'altra forma di comunicazione che considera il gusto quale mediatore verso il sublime. Intercettare il melange dei sapori corrisponde alla finezza dei sensi. Quasi l’impresa di poter catturare nel nostro personalissimo reticolo ciò che si avvicina all’astrazione traslando il concetto d’origine rappresentato dall’elemento materiale. Colui che crea attraverso gli ingredienti della cucina non è poi tanto distante dall’incarnare la figura del demiurgo moderno. L’elevazione dello chef che si smarca dal ruolo tradizionale del cuoco pone il valore dell’inventiva culinaria al giudizio degli altri ma critici,interventisti del gusto,tuttologi e (quasi) esperti,spesso non possiedono attitudine,catarsi per captare la complessità e l’unicum della composizione. Su tale sintonia pare posizionarsi la grandezza (presunta?) di uno chef (
Ralph Fiennes) che in
The Menu pretende dai suoi clienti (giornalisti,industriali,gente di lignaggio) un trono sacerdotale e capovolge genialmente le parti in essere escogitando un ribaltamento del classico ruolo,da giudicato a giudicante. Egli conosce l’alchimia degli ingredienti,rivendica un’idea di preparazione che nasce e percorre il travaglio dell’uomo porgendo agli altri la fragrante integrità di segreti vissuti. Lasciano al tocco del palato fine condivisione che finiscono per dare al film un tono di diversità offrendo alla visione un tavolo da buon appetito,cinico ed esplosivo. L’artista inglese reinventa il gusto sottile di un personaggio che interpretò Vincent Price in
Oscar Insanguinato,film dove un attore chiamava a giudizio,critici,giornalisti svagati,che a parer suo gli avevano impedito di vincere l’Oscar a causa di recensioni poco sapienti,e si vendicherà di ognuno con contrappassi shakespeariani.
The Menu,depurato dallo stile gotico del sopracitato viaggia in un equilibrio paradossale che contempla all’incirca la vendetta quale fosse sinonimo di giustizia,per certo da qualsivoglia punto di vista non conosce politicamente corretto. Forse è per quest’ultimo motivo che la pellicola è passata stranamente nell’indifferenza della stampa
mainstream sebbene i media abbiano perso l’occasione di far focus su un film di successo. Dice Federico Vascotto su
Movieplayer,”Rappresentativo di quell'apparenza ostentata che nasconde una grande ignoranza”. Si comprende subito che l’impatto della storia non può lasciare in giro silenzioso snobismo tantomeno complicità per un conformismo ingannatore.
Ralph Fiennes, Chef nel film
Federico Pontiggia pronto al barbecue tematico mette carne sul fuoco, “
Abbina eccellenza culinaria e critica sociale,esalta il palato e stigmatizza il privilegio. Si alza la temperatura dei fornelli e al
Quotidiano Nazionale ribattono l’affermazione sopra affermando
.” Uno sguardo piuttosto elementare,per quanto veritiero,sul mondo dei privilegiati”. Giudizio un po’ frettoloso del giornale che non tiene conto di un fattore decisivo del linguaggio,
The Menu comunica in maniera percettiva e non didascalica il suo bollente messaggio,sarà giusto rilevare nel media di aver usato nella deduzione un livello di cottura insufficiente che serve a distinguere soltanto un retrogusto di pensiero conservatore. Plauso al regista Mark Mylod arriva dal britannico
The Guardian che per voce di Benjamin Lee sostiene
.” Egli usa gli stessi ingredienti della serie tv «Succession»
ma cotti a temperatura differente concentrandosi sulle bizzarrie dei ricchi”. Non di meno va considerata Anya Taylor Joy che partendo per così dire dalla panchina diverrà l’outsider,vera antagonista di Ralph Fiennes. La giovane marca duro il disegno prefigurato ma in parallelo coglie un’altra perla della propria breve carriera alzando il livello di un racconto che vira ad
“Opera dai tratti filosofici in cui arte e cultura sono ridotte a prodotto facilmente accessibile con il giusto strumento volgarmente noto come denaro”,così parlò Alessandro De Simone (
Ciak Magazine). La sceneggiatura consolida un immaginario,à la Carte,insinuato da scelte gastronomiche quali simboli del piacere statuario o della ribelle alternativa. In questo caso un bel cheeseburger con patate fritte diverrà,come per il capitano della nave nel film
Triangle of Sadness,l’allegoria più affidabile del rifiuto alle convenzioni in atto. Se un tempo il panino con carne macinata e formaggio fu uno dei primi miti del consumismo fast food oggi pare innalzarsi per verismo a emblema nel tempio della rivolta. Andrea Peduzzi su
IGN Italia citerà anche lui Ruben Östlund ricordando soprattutto il film precedente del regista svedese affermando:
“Film pieno di sapori e ingredienti da smarcarsi dalle categorie classiche come «The Square»”. Per certo il tutto va a risaltare un,
”Thriller gastronomico spesso borderline che magari eccede a tratti in concettualità”,per come lo vede Federico Gironi di
Comingsoon.it,mentre Sergio Sozzo di
Sentieri Selvaggi inquadra
The Menu alla stregua di
“Una parodia dei cooking show di questa generazione aggiornando canovacci in stile Monty Python”. E’ un tema molto attuale quello culinario,diventato troppo d’elite ma anche facile per abbagliare la massa,forse è giunto il momento della demistificazione. Il clima induce in tale direzione quando un libro di Valerio Massimo Visintin di recente pubblicazione narra senza reticenze di ristoranti che si fanno il look con recensioni gonfiate e prezzolate mettendo alla berlina chef,giornalisti,food blogger e tutta la corte dei miracoli saporiferi.