Micaela Ramazzotti e Renato Carpentieri
Tra un’infinità di titoli italiani che invadono le sale ogni settimana,tutti provvisti di presunti pedigree e roboante prosopopea per richiamare nel loro nome le attenzioni del pubblico pagante,lasciava curiosità sommessa di apparente,incompiuta perifrasi,un film sottolineato dal requisito della vaghezza.
Una Storia senza Nome non dà indicazioni nette,ma dietro il sibillino uso a ignoti riferimenti parrebbe nascondersi la cifratura del mistero. Roberto Andò è carattere insolito nel panorama di una cinematografia italiana,invero sempre politicamente corretta e perennemente non protesa a incidere nei meandri di una cultura controcorrente ormai sconosciuta in questo paese. Il regista semmai ha sguardo politico che non soggiace troppo al verbo di chi ha comandato in questi anni cercando qualche discreto tentativo fuori dal coro. Stavolta in quel titolo che non dice molto più si celerà una parabola innominabile,le cui chiavi quando rivelate sarebbero in grado di aprire segreti e i risvolti di chissà quali misfatti ? Così assistere al film potrebbe suscitare un tipo di potenziale scoperta ben più avvincente di quanto suggerisca la posata,enunciata labilità della pellicola. L’unico dato certo di
Una Storia senza Nome nasce da un vero fatto di cronaca avvenuto nel 1969 quando sparì “La Natività” del Caravaggio dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo,che non fu più ritrovata. Il dipinto sembrava in mano alla mafia e da allora molte versioni di comodo vennero diffuse durante le indagini. Anche l’ambizione del nostro film diviene effettiva e marcata tentando incursione nella sovrapposizione dei generi che supportino una buona solvenza da meta racconto. L’episodio accaduto ieri,oggi tornerà in auge divenendo per scelta d’archetipo l'oggetto di una sceneggiatura per un altro film,questa volta in produzione. Uno strano personaggio sta riportando in luce il fatto di cronaca forse per far uscire tanti scheletri dall’armadio. Saranno coinvolti,la segretaria di un produttore,un regista assetato di vanagloria e un detective di provata conoscenza del crimine. Clan,amicizie politiche e ambienti dell’industria cinematografica sembrerebbero collusi e disposti a dialogare in un coacervo d’identità attendibili che non disdegnino il ritratto allegorico di verità parallela. Sicuramente la storia di Roberto Andò vuol trovare un equilibrio che rimandi alla forza proverbiale e costantemente in evoluzione del cinema americano alla ricerca di continue soluzioni narrative,piuttosto di rifarsi ai loghi velleitari e balbettanti dei film domestici. A tal proposito è Mariarosa Mancuso (
Il Foglio) che suggerisce una figurazione
,”Il paradosso è immaginare un film sugli sceneggiatori in un cinema dove latitano gli sceneggiatori”. La pellicola minuto dopo minuto s’insinua in mille rivoli e citazioni posticce,tentando d’intersecare,thriller,spy story,commedia e pamphlet politico. Perderà contatto con la contestualità principale per causa di una guida poco esperta,naufragando tutta la buona volontà di sofisticata dinamicità. Per Silvio Danese (
Quotidiano Nazionale) “
La combinazione dei piani è un po' schematica” e sullo stesso verbo,Antonello Catacchio (
Il Manifesto) dice che il film ha,
“Scorrimento farraginoso”. Oltretutto non si può aspirare a format di spessore quando si dispone di un cast incerto,ricordando la gigionesca Laura Morante e con Micaela Ramazzotti e Alessandro Gassman che interpretano malissimo i loro ruoli,escludendo dal disastro Renato Carpentieri,l’unico veramente in palla e credibile del gruppo. Valerio Caprara (
Il Mattino) fa un paragone culinario ponendo in nobile relazione cinema e cucina,
“Fa pensare all'incidente che capita talvolta alla salsa maionese se la quantità d'olio è eccessiva:l'emulsione con l'aceto o il limone la farà impazzire”,e poi continua,
“Un effetto per noi poco lusinghiero che potrebbe,però,gratificare la produzione con un buon riscontro al botteghino”. Quest’ultimo esito non ci sarà mai,
Una Storia senza Nome,uscito in centinaia e centinaia di schermi dopo il primo weekend verrà visto da poco più di 50.000 presenze lasciando perplessi anche i distributori. Del resto usando l’allegoria di Caprara,se la cucina è talmente modesta non si potrà affatto sognare che il ristorante divenga meta di autolesionisti del menù. Il lavoro di Roberto Andò trova comunque estimatori,Fabio Ferzetti (
L’Espresso) dichiara
,” Una Storia senza Nome è un McGuffin hitchcockiano,motore di un vaudeville tragicomico e godibile che galoppa con sentiti omaggi a Sciascia e Pirandello”. Dal
Secolo XIX° gli fa eco Natalino Bruzzone affermando
,”Andò si lancia con ammirevole perizia sulla possibilità del cinema d’incidere il reale”. Ambedue non fanno analisi approfondita,accettano supinamente le relazioni dei capitoli montando un panegirico di parole più adatto al marketing che ad essere di giusta ispirazione per chi s’informa al fine di comprendere o per andare a vedere un film. Alla resa dei conti
Una Storia senza Nome s’impregnerà di un anonimato sostanziale che purtroppo non lo differenzia dalla ricorrente tipicità diffusa nel cinema italiano.