Il Signor Diavolo ritorno del regista alle origini,un mistery sulle location del Po
Il ritratto di una società inquieta non avvince ma apre una cascata di opinioni
A cura di Franco Ferri
Pupi Avati, regista de Il Signor Diavolo
Non cede facilmente al viale del tramonto e la riapparizione nelle sale del regista emiliano dopo un periodo di esilio televisivo rimette al centro le origini di Pupi Avati. Il passato remoto come deterrente al recente passato per esorcizzare tanto sentimentalismo e bozzetti che hanno finito per stereotipare il suo lavoro. Questa specie di ritorno al futuro non poteva non ripartire da certe latitudini e atmosfere sul delta del Po che hanno segnato indelebilmente una filmografia soprattutto con
La Casa dalle Finestre che Ridono,il più inquieto e vivido mistery di produzione italiana mai apparso sugli schermi. Riappropriarsi di uno stile troppo presto messo in soffitta diventa necessità benefica che lo stesso Avati giustifica in maniera morale,”
Oggi nessuno parla più del diavolo nemmeno il Papa. Il demonio non esiste e il male è solo quello che fanno gli altri. Viviamo in una cultura auto assolutoria in cui nessuno ha più il senso della colpa:” La genesi del
Signor Diavolo trova il respiro etico per ritornare sui luoghi e cercare uno sguardo figurativo,contemporaneo,che trovi ragione fondante nel substrato di un’epoca molto particolare a cavallo tra la provincia ferrarese e il Veneto conservatore
,” Nella meschina ignoranza di un'Italia dei primissimi anni Cinquanta, in cui si nasconde a cielo aperto quella Democrazia Cristiana impaurita da un caso di omicidio”,suggerisce
Stefano Colagiovanni (
Close up). L’idea del Male,quale concezione che dirama vite e comportamenti nascosti di una comunità diviene la costante aprioristica dove si tuffa con piacere Gianni Canova (
We Love Cinema), definendo,
Il Signor Diavolo,
”Uno dei film più belli e compiuti. Lo è per la radicalità con cui fa i conti con il grande rimosso del cinema italiano: la presenza del Male”. Nonostante ciò l’afflato ricorrente farà vivere agli spettatori una storia un po’ ingessata quanto mai distolta dalle’iconografie più celebrate o semmai dotate di esplosiva anticonvenzionalità. Eppure la presunta rivisitazione di un genere interessa,Valerio Caprara (
Il Mattino) che definisce il film
,”Trattasi di «gotico padano»,per i motivi lugubri e ancestrali del mondo contadino in cui religione e superstizione si fondono senza remore”. Situazioni,costruite da uno spartito che sembra tutelare la forma della pellicola sotto la guida arbitrale di una consulenza scientifica protesa di sicuro al verbo antropologico ma il disegno culturale nella dinamica cinematografica apparirà fin troppo frenato. Il taglio dei personaggi si sofferma sulla palingenesi delle tipiche foto di quegli anni,senza dimenticare che il makeup trasforma i volti sedimentando l’indole dei caratteri nascosti tra,paura,lussuria,incapacità,tacita cattiveria e rituali canonici. Nell’evidente richiamo alla disciplina psicosomatica che fece del Lombroso,ammirata e temuta personalità ancora molto influente nel dopoguerra,viene collegato il legame enigmatico fra i tratti facciali e il quantum ambiguo degli individui,un aspetto sommesso ma primario nelle descrizioni del racconto. Difatti anche Maurizio Cabona (
Il Messaggero) sottolinea il risvolto di un logo paradossale mai rimosso completamente che appare per contrasto la miglior performance del
Signor Diavolo,”Le deformità del corpo corrispondono a quelle dell'animo in una terra in cui non ci sono stranieri e tutto è cattolicamente italiano”.
Chiara Caselli interpreta una donna misteriosa
Il confronto con il film di quarant’anni fa,
La Casa dalle Finestre che Ridono,che ancor oggi passa con ammaliante ricorrenza sul piccolo schermo,non lascia spazio a dubbi. Quello possiede immarcescibile carica entropica,un’anarchica dirompenza che sorprende coscienze e nello stesso istante rompe schemi di genere. Il diavolo di Avati è un ritorno troppo studiato a tavolino finendo per lasciar freddi anche di fronte all’epilogo che dovrebbe stupire. C’era l’omaggio,il vincolo tra ieri e oggi con la presenza nel cast di Lino Capolicchio e Gianni Cavina,tuttavia come dice Paolo Baldini (
Corriere.it)
“ La mano è un po’ stanca: è come se oggi Sergio Leone potesse regalarci un altro spaghetti western”. In guardia pure Daniela Catelli (
Comingsoon.it) affermando sul paragone tra i due film girati nei dintorni del Po,”
Meno terrorizzante dell'horror del 1976” ,mentre Emiliano Morreale (
La Repubblica) si lancia,”
Lo stile è vecchiotto con qualche scivolone (un tremendo flashback al ralenti),gli attori principali un po' ingessati”. Opinione un po’ surreale per Alessandra De Luca (
Avvenire),
“Avati confeziona un film destinato probabilmente a conquistare i più giovani,da sempre attratti dall’horror”. Il diavolo di Pupi non è un horror nel più puro dei riferimenti e neppure nell’evidenza dell’errore,sta riscuotendo al botteghino meno del previsto,a vederlo soprattutto pubblico anziano che ha fede nel nome dell’autore e nell’invito del messaggio televisivo ma ormai non basta più. Tra le opinioni curiose c’è quella di Mariarosa Mancuso (
Il Foglio) che cita alcuni capitoli del
Signor Diavolo inzuppandoli di opportuno anacronismo per cantare uno slogan politico.
“Ascoltino i sostenitori della decrescita felice. Un camioncino gira per le campagne raccogliendo la pipì delle donne incinte (immaginiamo per sperimentare un test di gravidanza). Una ragazza si fa vedere nuda in cambio di un coniglio. Tutto intorno è grigio e desolato” No! La critica cinematografica (nell’ottica disciplinare) dovrebbe evitare mortali devianze e pessime strumentalizzazioni. Altrettanto strumentale è quello che d’impatto sembra un altro slogan sebbene stavolta strizzi l’occhio al marketing,
Mymovies.it,magazine del cinema è molto roboante sull’argomento
,”Avati azzecca praticamente tutto e crea un altro dei suoi capolavori”. A parte
che andrebbero articolati tutti i punti di condivisione positiva con puntualità analitica evitando invasivi e inebriati frasari. In ogni caso l’assioma quando espresso istintivamente farebbe percepire nel fondo quel sapore di precisino che non diviene sinonimo di perfezione ma rinvia all’eccessivo metodo di elaborazione della storia sul quale abbiamo ampiamente sopra descritto come limite principale del
Signor Diavolo.