Ralph Fiennes nei panni di M° Gustave
Zubrowka è una piccola repubblica che ha avuto il merito di scrollarsi di dosso il tempo. Dentro un impero che sta per essere sconfitto dalla storia mantiene incrollabilmente tutto il carico d’immagini,di sapori e di aloni di quello scrigno del mondo romantico. Sembra apparentemente la foto nostalgica di un’epoca a cavallo tra ottocento e novecento che usa cinema e moderne tecnologie per imporre a pronipoti lontani il subdolo carico dell’ultimo eco di Mann o del crepuscolo etico raccontato da Stefan Zweig. In quella regione europea dell’Orient Express con garbata sintesi figurativa Wes Anderson ha voluto costruire il suo
Grand Budapest Hotel non tanto per eccentrica totale visione da contrapporre ad un miope conformismo della ripetitività culturale ma per far comprendere la fonte di un’ispirazione. In filigrana ci condurrà altrove nel posto senza carta geografica dove mente e spirito potranno ritrovare il vento giusto,che accompagna parole e sensazioni alla ricerca di una bellezza perduta senza tempo,che accende il fuoco dell’invenzione eccitando anche la gente del nuovo millennio. Molto più banalmente la chiamiamo fantasia,con termine assai esplicativo tale da far capire dove fila la locomotiva. Osserviamo per credere la sala da pranzo del Gran Budapest sita in uno spazio da platea teatrale che risulterà il vero palcoscenico e motore della storia cinematografica con il racconto orale di Moustafa allo scrittore. Il film sta avendo un successo che va oltre il suo quid d’origine e probabilmente é la forza implicita dentro alle pieghe e ai risvolti a trovare empatia nel pubblico. In fondo può essere vista anche come spunto di paragone rispetto al nostro modo di vivere. Mariarosa Mancuso sul
Foglio dice
“. Non sopportiamo più le chiacchiere sui non-luoghi: aeroporti o piazze da centri commerciali che contraddistinguono la nostra misera postmodernità. Per Wes Anderson potremmo parlare di super-luoghi: arredati con cura maniacale, personalissimi”.
Emanuela Martini
Il discorso prettamente stilistico trova estimatori partendo dal versante tecnologico che spesso in Italia viene sottovalutato,Alberto Crespi su
L’Unità ne fa menzione in questa maniera.
“Il film dimostra inequivocabilmente come gli effetti digitali possano essere amabilmente rétro se messi al servizio di una fantasia lussureggiante come quella di Wes Anderson. In altri tempi,il film sarebbe stato un'operetta. Oggi è il viaggio surreale nelle memorie di un portiere d'albergo.” Molti recensori si sono distinti per il solito accesso facilitato ad un film che prevede modalità di citazione. Tanto agevole tirare in ballo Ernst Lubitsch e Billy Wilder,però il succo delle atmosfere e del clima particolare della vicenda fa riferimento ad altri senz’altro più specifici. Lo ricorda con opportuna solerzia nella sua nota Emanuela Martini dall’inserto settimanale del
Sole 24 Ore.” Zweig,lrène Némirowsky,Schnitzler,i nomi che vengono in mente davanti al film di Anderson,più di Billy Wilder,Ernst Lubitsch e Max Ophuls“. Siamo sostenitori di una sensibilità contemporanea presente nel film sotto alla costruzione di tocco squisitamente retrospettivo. Un concetto cui Giulia D’Agnolo Vallan de
Il Manifesto si associa con chiara deduzione,
” Spesso accusati di essere solo operazioni di superficie,decorativi,in realtà i migliori lavori di Anderson portano su di loro il tumulto e la convinzione dell'utopia e «Grand Budapest Hotel» in realtà è un film pieno di presente ”. La condizione stilistica vede anche opinioni non certo positive,su
La Repubblica la recensione del film non condivide affermazioni esposte da altri critici.
“La consistenza di monumento all'inconsistenza,al superfluo,surclassa caratteristiche già largamente espresse nei precedenti film. I luoghi,i tempi filtrati da una sensibilità da operetta e feuilleton. Resta il mistero del perché un autore che del tenue e dell'esile ha fatto la sua cifra,emisfero opposto rispetto a Tarantino,si sia imposto tra i giovani come un fenomeno super cool “.Paolo D’Agostini molto spesso ha la caratteristica di guardare il cinema americano con pregiudizio che finisce per condurlo purtroppo nel vicolo della superficialità. Citando Tarantino dovrebbe conoscere il legame dell’autore di
Pulp Fiction con uno stile ellittico,un significante traslato che va più in là della storia contingente. Alla stessa stregua Wes Anderson usa una metodologia colta che dona al suo personale stile
sonorità,chiamiamole così,anticonformiste quanto immediate per l’intuizione giovanile. Chi comprende il cinema sa che non si arriva da nessuna parte se la discussione verte sugli effetti,trovando la causa scoprirà il mistero dell’autore. Dal piccolo schermo Valerio Caprara afferma di essersi divertito con
Grand Budapest Hotel ma fa intuire un buco nero quando con verbo retorico scandisce una frase appartenuta a Lubitsch
,” Questo film non vuole veicolare alcun messaggio”. Il piacere della vista si integra con quello della mente,il film autenticamente esprime molti effetti comunicativi ma con ulteriore visione potrebbero essere scavati e percepiti con distinzione.